14 Marzo 2022

AMAA. Sull’essenza del concret-o


Fondato nel 2012 da Marcello Galiotto e Alessandra Rampazzo a coronamento della loro collaborazione durante il percorso universitario, AMAA mette a frutto la sensibilità personale maturata in campo architettonico grazie all’esperienza al fianco di Massimo Carmassi e Sou Fujimoto. L’attività professionale è accompagnata da un costante lavoro di ricerca e dalla collaborazione con il mondo accademico: laureati nel 2010 presso lo Iuav di Venezia, presso la stessa università conseguono entrambi il dottorato di ricerca in Composizione Architettonica (Galiotto, 2015) e in Storia dell’Architettura (Rampazzo, 2017). Lo studio ottiene numerosi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale, tra i quali la vittoria ad Europan 11 a Linz, il terzo premio al Concorso House in MilanoSesto ed è selezionato per il Premio Federico Maggia 2015. Nello stesso 2015 sono Architetti dell’anno under 36 – New Italian Blood. Nel 2019 lo studio riceve la menzione speciale ad Europan 15 a Graz per il progetto Island (e)scape. Nel 2019 vince in RTP il concorso per la progettazione e realizzazione di un edificio di 9 alloggi IPES a Bressanone (BZ) e per l’estensione dell’RSA “Rosa dei Venti” di Borgo Chiese (TN), entrambi in corso di formulazione del progetto esecutivo e definitivo. Nel 2020 vincono in RTP il concorso di progettazione del nuovo teatro comunale “Giuseppe Verdi” a Terni. Nel 2021, lo studio, insieme a DEMOGO e ad Angelo Renna per il paesaggio, vince in RTP il concorso di progettazione “Polo Civico Flaminio” a Roma. Tra le opere realizzate, il restauro del Convento Santa Croce a Venezia ottiene la menzione d’onore al Premio Biennale Barbara Cappochin 2015 (sezione regionale) e il riuso di The [B] Zone è selezionato tra le migliori 10 opere regionali al Premio Biennale Barbara Cappochin 2017 e finalista a The Plan Award 2018. Il progetto “Final Outcome” riceve il primo premio Young Italian Architects nel 2020.

Pleonastic is Fantastic, Lonigo, 2021, modello

AMAA – Collaborative Architecture Office For Research And Development è uno studio, un ufficio, una biblioteca, un atelier, un laboratorio, una bottega artigiana, una falegnameria, un’officina, un salotto. Un’identità volutamente sfaccettata e multiforme che fonda il proprio operato sulla ricerca dell’essenza, di quella sostanza che si concretizza a livello formale e concettuale mediante l’impiego coerente di una materia secondo la sua particolare natura ed inclinazione. Un processo di riduzione al linguaggio primo di una materia in grado di esprimere il suo essere ora forma urbana, ora struttura, a definire uno spazio privo – se possibile – di rivestimenti inutili. Un continuo dialogo tra progetto, costruzione e materiale scelto che fonda le sue radici sul ben noto confronto di Louis I. Kahn, celebre maestro del Novecento, al cospetto del piccolo elemento modulare laterizio: se si potesse chiedere a un mattone cosa vorrebbe essere, ovvero quale vorrebbe fosse il suo ruolo nella costruzione, la sua risposta sarebbe un arco. Ciò che lo studio si propone di fare è, dunque, affrontare il tema del linguaggio del progetto interrogando proprio la materia nella sua concreta essenzialità, chiedendole di esplicitare la sua naturale propensione.
CONCRETO, CONCRETE, BÉTON, CEMENTO
Il ruolo del materiale investe la riflessione a tutto campo: la chiara denuncia della natura della materia si riverbera nei diversi momenti del processo progettuale coinvolgendo le diverse scale, dalla più ampia del concept alla più minuta della costruzione, curata fino al dettaglio. Nella tensione verso quelle forme che, proprio perché primigenie, risultano spogliate di ogni addizione non necessaria, si palesa il cercare e continuamente ri-cercare il concreto.
A partire dal modello alla scala 1:500, lo studio –bottega, in questo caso – lavora sulla struttura urbana considerandola “pietra fusa”, affinché questa conformi uno “zoccolo” pieno su cui innestare il tassello di progetto, quale fosse una sorta di “oggetto a reazione poetica”. Il linguaggio figurativo utilizzato per la rappresentazione in scala del progetto all’interno del contesto (quell’elemento diverso sia per cromatismo che per materia) si confronta proprio con la massa della base e, nell’evi-dente contrasto, permette una lettura della città quale discontinua omogeneità (nonostante le differenze riscontrabili a una lettura più attenta, gli edifici appaiono quali masse omogenee su cui si stagliano episodi puntuali, spesso a carattere monumentale). L’uso, anche estremo, dello strumento del modello, così come permette di comprendere la scala del progetto, costituisce di fatto il primo approccio allo studio del sito e alla conoscenza del territorio e della sua morfologia: è un’attività discreta e critica, attraverso cui proprio nel dialogo con il materiale e le sue potenzialità si decide cosa e come rappresentare, tralasciando tutto ciò che sovraccarica la percezione e focalizzando l’attenzione unicamente su ciò che si intende comunicare. Allo stesso tempo pone a diretto contatto con la materia. Una materia che, ancora una volta, acquisisce il suo maggiore significato non per i dettagli che riesce a mostrare, ma per le forme e la consistenza che essa stessa rappresenta. 

Il triangolo no!, modello di concorso

Alla scala 1:10 e 1:1 (scala reale dell’opera realizzata), lo studio – officina, in questo caso – lavora sulla pulizia formale del disegno di un infisso, che per sua predisposizione vorrebbe essere costruito in ferro, e anche dello sviluppo di una grondaia, che “pretende” di essere disegnata e precisata divenendo parte della sintassi del progetto. Lo studio del dettaglio cela un continuo confronto con la tradizione e i suoi modelli – dagli illustri esempi della più nota storia dell’architettura fino agli apparentemente insignificanti episodi dell’architettura minore – che si offrono quale ventaglio di risposte possibili agli interrogativi del progetto. Il dialogo e l’interrogazione qui acquisisce una duplice direzionalità, interessando non solo la naturale propensione del materiale ma anche le specifiche richieste degli elementi architettonici più significativi. Le risposte costituiscono nel lavoro dello studio delle specifiche scelte progettuali. Il concreto si pone dunque quale importante prerogativa nello sviluppo dei diversi progetti, sfruttando una duplice valenza del termine, che sottolinea da un lato il ricorso a un materiale specifico e, dall’altro, la necessaria spinta alla costruzione. Il progetto acquisisce valore nel suo esserci, nel fatto della costruzione, nella sua traduzione in concreto, appunto. Si coglie nell’approfondimento di questo tema una potenzialità che attraversa la sfera teorica per piombare con forza nella sfera della tecnica costruttiva del cemento a vista.
Alla scala michelangiolesca o scultorea del rapporto 1:33, lo studio – ora falegnameria – pensa a quello che una semplice porta può essere e, nella pratica, nel concreto, lavora su ciascun elemento che la compone: riflessioni che partono da aspetti tecnici, quali la meccanica delle cerniere, la scelta della maniglieria, si traducono in una tensione verso quell’atmosfera che Peter Zumthor, nel suo Pensare Architettura, fa risiedere nella memoria sensoriale legata a esperienze primordiali, al momento in cui viveva “l’architettura in modo spensierato”. Per lo stesso principio lo studio procede nel progetto e nel tentativo di consolidare un proprio linguaggio in maniera a-scalare, a partire dal bagaglio culturale costruito dalla sua biblioteca, dai migliaia di testi che ha collezionato nel tempo e che continua ad “accumulare”, dagli oggetti e dalle opere d’arte che disseminano lo spazio di lavoro.

AMAA Workshop, Arzignano, 2019 e Space within a Space, Arzignano, 2020

Il ri-uso dei luoghi qui presentati attraverso immagini e suggestioni, che in epoca contemporanea devono evolvere la loro forma, per adattarsi alle sopravvenute esigenze, costituisce gran parte della concezione del progetto: si tratta di un’azione concreta che riponga proprio in questo pragmatismo la potenzialità di rivoluzionare una spazialità già esistente con pochi e specifici interventi che raggiungano la sfera più alta della memoria e delle sensazioni. Si tratta di particolari stratificazioni volte a sostenere il valore intrinseco di uno spazio, non una ideazione tout court, per cui diviene essenziale il ricorso agli strumenti dell’architettura nella loro accezione più semplice: disegni privi di scala, schizzi, modelli di studio, brutti. La riconoscibilità non è un fatto formale ma è legata dunque alla maniera di procedere. Nel tentativo di ricerca del concreto – brut, sincero, appunto – risiede un lavoro complesso che procede per tentativi e che presuppone il giusto bilanciamento tra la profonda conoscenza della materia nel suo specifico, ma anche verso mondi che spesso si allontanano dal fare architettura, ma che allo stesso modo interrogano la materia e applicano forze indefinite alla stessa (come per esempio il mondo dell’arte e le sperimentazioni di Arcangelo Sassolino).
Questo articolo è stato pubblicato in l’industria delle costruzioni 483 – rassegna italiana 2022 – gennaio/febbraio 2022

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