Ricucire, rammendare, rigenerare intere porzioni
urbane a partire da un edificio, sono operazioni
care alla poetica di Renzo Piano. Specialmente
quando si tratta di intervenire sui waterfront,
instaurando un dialogo profondo tra l’edificio e il
mare e indagando la relazione complessa che
intercorre tra il museo e l’acqua, la città storica,
lo spazio pubblico.
Nella sua lunga carriera, di musei bellissimi
Renzo Piano ne ha progettati a decine nel
mondo. Il suo elegante approccio insieme
umanistico e soft tech – sempre orientato a
mettere al centro lo spazio, la luce e le persone
– lo ha reso tra gli interpreti più sofisticati in
questo specifico ambito progettuale. Quando si
parla di musei, infatti, una delle questioni centrali
dal punto di vista critico riguarda il corretto
bilanciamento tra forma e funzione, oltre che il
rapporto tra contenitore e contenuto: e Piano,
negli anni, ha dato prova di saper creare edifici
che non solo sono capaci di ospitare l’arte, ma di
essere essi stessi opere d’arte. Diversamente da
altri suoi colleghi però, più intenti a puntare su
gesti scultorei, con forme audaci e sinuose che
dominano il paesaggio urbano, Piano sembra
preferire un approccio più rispettoso, che si
integra nel contesto. Anzi, che ci dialoga: è
proprio dalla relazione di reciprocità con
l’intorno, con la storia, le trasformazioni in atto e
il suo paesaggio, che l’architettura prende vita,
integrandosi con il luogo e mettendosi a servizio
della funzione per cui è stata immaginata.
In un’epoca in cui molte opere cercano di stupire
a tutti i costi, Piano ci ricorda che l’architettura
può anche essere silenziosa, discreta, meno
muscolare. Eppure potente.