20 Luglio 2023

The Laboratory of the Future


La 18a Biennale di Architettura di Venezia ha aperto ufficialmente il 20 maggio, dopo la vernice del 18 e 19, per rimanere visibile al pubblico fino al 26 novembre 2023. La mostra è curata dall’architetta, docente e scrittrice Lesley Lokko, forse universalmente più nota per la produzione letteraria di successo che per le esperienze professionali e didattiche. The Laboratory of the Future ruota interamente attorno a due temi cardine, decolonizzazione e decarbonizzazione, in una sorta di connubio di intenti tra curatrice e Fondazione Biennale: Lokko ha coordinato i lavori in sintonia con un più esteso indirizzo che vede la Biennale impegnata nel contrasto al cambiamento climatico attraverso la promozione attiva di un modello più sostenibile per la progettazione, l’allestimento e lo svolgimento di tutte le sue attività. L’obiettivo condiviso è quello di azzerare l’impatto carbonico dell’evento, pianificandolo in base a principi di sostenibilità ambientale. Le principali azioni messe in campo, che implicano la complicità di organizzatori, partecipanti e pubblico, sono l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili; la riduzione e il riciclo di materiali, attrezzature e allestimenti; un’azione diffusa di sensibilizzazione dei visitatori, chiamati a valutare le proprie modalità di spostamento e di visita, in un contesto – la laguna di Venezia – in cui la mobilità è tra le componenti più impattanti in termini di impronta ambientale. I temi su cui i partecipanti sono stati chiamati a esprimersi sono dunque quelli su cui l’organizzazione stessa riflette, in maniera allargata e pubblica (decarbonizzazione), e quelli che presumibilmente hanno interessato le vicende private e personali della curatrice, cittadina scozzese e ghanese, naturale “prodotto” della diaspora africana (decolonizzazione). L’esposizione raduna 89 partecipazioni, di cui oltre la metà provengono dal continente africano o discendono dall’enorme dispersione che la storia ha messo in atto sulla sua popolazione. L’età media è di 43 anni e per la prima volta in assoluto quasi la metà degli architetti selezionati lavora in studi a conduzione individuale o composti da un massimo di 5 professionisti. Pressoché assenti, seguendo la tendenza delle scorse edizioni, le grandi “firme” della produzione architettonica internazionale.

Installazione nel salone d’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini. Appesa al soffitto la “mappa” tridimensionale che contiene frammenti di tutte le partecipazioni a The Laboratory of the Future

Intraprendendo la visita dal Padiglione Centrale dei Giardini, spazio-manifesto di ogni Biennale, ci si trova al cospetto di una moltitudine di sottili oggetti rossi che occupano a mezz’aria il cuore del grande salone d’ingresso. L’installazione raggruppa sagome che replicano in forma iconica ciascuno dei contributi di Laboratory of the Future, disseminati tra le varie sedi della mostra e qui idealmente riuniti in un corpo collettivo. La presenza simultanea delle voci di tutti gli invitati in questa sorta di mappa collegiale dà il benvenuto ai visitatori ed è un invito a «stabilire connessioni tra le partecipazioni, le idee, le forme, proprio come la mostra spera di fare nel suo complesso». Nelle stanze perimetrali del padiglione, la sezione Force Majeure riunisce il lavoro di 16 studi che, come in una questione di Forza Maggiore «che in alcune giurisdizioni può essere addotta a prova se l’evento in oggetto è imprevedibile, esterno e irresistibile, offrono un esempio della potenza creativa della cultura Black Atlantic, le cui radici affondano in un passato millenario e si protraggono verso il futuro». In questo segmento Adjaye Associates – con un intervento che in quanto a modalità espressive sarebbe ormai il caso di definire tradizionale, nel contesto della Biennale – presenta una serie di poetiche architetture attraverso modelli in scala che restano tra i rarissimi edifici esposti. Lo studio Adjaye, cofondatore insieme a Lesley Lokko dell’African Futures Institute, è presente anche negli spazi esterni dell’Arsenale con una struttura interamente in legno chiamata Kwae (“foresta” in una delle principali lingue del Ghana). La costruzione propone una pausa lungo il percorso espositivo, uno spazio dedicato alla meditazione ma anche a piccoli eventi, presentazioni, lezioni. La forma è quella di un prisma piramidale punteggiato da una grande apertura di ingresso e due oculi che inquadrano il cielo; lo spazio interno è scolpito attraverso un ricercato schema di posa dei listoni che lo conformano e delimitano, a ricordare la spazialità ancestrale di una caverna.

Adiave Associates, Adjaye Futures Lab, modelli. Sezione Force Majeure, Padiglione Centrale Giardini. Kwae. Vista d’insieme e vista dell’interno con la particolare soluzione costruttiva dell’involucro del padiglione realizzato all’Arsenale

Tornando alla sezione Force Majeure, Kéré Architecture, dopo aver ricordato che l’intero continente africano produce meno del 4% delle emissioni mondiali di gas serra, attraverso Counteract, installazione tripartita in ordini temporali, celebra la qualità della tradizione architettonica dell’Africa occidentale, fa il punto sulla situazione odierna e propone un approccio per il futuro. L’appello di Kéré ad adottare soluzioni che sappiano replicare i valori del passato non si esplicita nell’autoreferenziale narrazione della sua feconda produzione, ma esamina da vicino materiali, tecnologie costruttive, scenari. Attraverso una riproduzione fotografica, icona dello status quo, e l’ambientazione in scala 1-1 di un ipotetico spazio abitabile capace di rimettere al centro i saperi del passato, propone una valida “contro-azione” nel modo diffuso di fare architettura, ampiamente avvalorata dalle sue numerose opere realizzate, anche se del tutto escluse dalle scelte espositive. Ancora incentrato sulle relazioni tra passato e futuro, è il lavoro di Atelier Masomi. Certamente meno nota rispetto agli autori precedenti, Mariam Issoufou Kamara si concentra su un luogo specifico: la città di Niamey, in Niger, con le sue caratteristiche ecologiche, economiche, culturali e tra esse l’eliminazione delle tecniche costruttive tradizionali dalla coscienza pubblica, rappresenta un laboratorio dove realizzare un’architettura ispirata al passato ma proiettata verso l’innovazione e le esigenze del futuro. Process attribuisce grande importanza all’eredità culturale, alle narrazioni, all’ingegnosità e all’identità del contesto, proponendone la rilettura e la rielaborazione in chiave contemporanea attraverso modelli, video e disegni. Scegliendo di tracciare le piante sui muri della sala espositiva, Kamara vuole richiamare l’attenzione, come lei stessa afferma, «sull’importanza di camminare con leggerezza su questa terra».

A sinistra, Kéré Architecture, Counteract. Sezione Force Majeure, Padiglione Centrale Giardini. Al centro, Atelier Masomi, Process. Foto di dettaglio di una delle pareti della sala: plastico e disegno. Sezione Force Majeure, Padiglione Centrale Giardini. A destra, Studio Sean Canty, Edgar’s Sheds. Modello a grandezza reale della struttura liberamente ispirata alla baracca del bisnonno nella Carolina del Sud; in primo piano, modello in scala della baracca. Sezione Force Majeure, Padiglione Centrale Giardini

Con lo sguardo rivolto alla tradizione, la struttura Edgar’s Sheds proposta da Studio Sean Canty è liberamente ispirata a due baracche costruite dal bisnonno dell’autore nella Carolina del Sud. Le semplici forme messe in opera dall’antenato «nascondevano invenzioni straordinarie» ed erano portatrici di valori autentici e prassi virtuose, come il riuso e la cura verso gli altri e l’ambiente circostante. La funzione della struttura è semplice e primordiale: offrire spazi all’aperto dove ripararsi e stare insieme; il tetto simbolicamente sovradimensionato è il primo atto di protezione, la tettonica è frutto di un’attenta valutazione dei mezzi a disposizione e la costruzione è facilmente smontabile per il riutilizzo. Restando ai Giardini, le partecipazioni nazionali offrono un palinsesto di chiavi di lettura che toccano in maniera più o meno centrata le non certo facili e confortanti questioni proposte dalla curatela. Il padiglione della Francia, in preda a una sorta di isterica euforia, «suggerisce un nuovo approccio alle crisi odierne, in cui l’enfasi non è più sull’emergenza, ma sulla possibilità di futuri alternativi». Le ragioni di tanto ottimismo restano però inespresse, lasciando spazio a una programmazione ludico-culturale che per l’intero arco della manifestazione prevede incontri, confronti, spettacoli, ambientati in una cornice – un teatro ricavato all’interno di una gigante strobosfera sezionata – mondana e frivola ma, bisogna ammetterlo, esteticamente accattivante.

Giardini, Padiglione Francia, The Ball Theater. Curatori: Muoto & Georgi Stanishev

L’Austria sposta l’attenzione sulla tematica della partecipazione per riferire della diatriba in corso con il comune di Venezia che ha rifiutato di concedere l’uso di uno spazio pubblico adiacente ai Giardini per permettere la realizzazione del progetto – fallito – di collegare il padiglione al quartiere limitrofo e renderlo liberamente accessibile a residenti e visitatori durante la Biennale. Un percorso alternativo – una scala che scavalca il muro di recinzione realizzata solo a metà – costituisce il focus della mostra. Incentrato invece su buoni rapporti di vicinato è il padiglione svizzero, il cui progetto illustra la sintonia con l’adiacente omologo venezuelano e il legame personale e professionale tra i rispettivi progettisti. L’assoluta indifferenza al tema generale si perdona velocemente grazie a un allestimento riuscito, esplicito e ispirato al contempo. Tra le partecipazioni nazionali, tre sembrano invece aver pienamente accolto l’invito della curatrice a riflettere e contribuire sul tema della decarbonizzazione: le mostre realizzate nei padiglioni di Germania, Spagna e Belgio. La Germania mette letteralmente in scena il tema del riciclo dei materiali da costruzione allestendo il proprio spazio senza smantellare Relocating a Structure, opera di Maria Eichhorn realizzata per la Biennale Arte 2022. Componenti di risulta provenienti da passate manifestazioni si sovrappongono alla spazialità decisa dall’opera artistica e popolano lo spazio della mostra Open for Maintenance, tracciando il percorso dei visitatori e rendendo manifesta la quantità e qualità di materia impiegata, e purtroppo troppo spesso non riciclata, per realizzare manifestazioni di questa portata. Il padiglione della Spagna è un viaggio di esplorazione attraverso il sistema di produzione agro-alimentare del paese, per affrontare questioni di portata globale. Il racconto Foodscapes intende mettere in luce lo smisurato impatto che le catene di produzione del cibo determinano sui territori. Un tema spesso dimenticato dal dibattito sulla sostenibilità, quello delle strette interazioni che intercorrono tra alimentazione, società e ambiente antropizzato, viene qui indagato per dimostrare quanto la produzione, distribuzione e consumo di cibo condizionino la nostra società e quanto queste attività incidano sulle metropoli, sui territori e sulla geografia globale. Il viaggio nei luoghi deputati a sfamare il mondo si concretizza in un progetto di allestimento incentrato su 5 cortometraggi e scomposto in una miriade di disegni e immagini che realizzano un caleidoscopio di informazioni sul tema, assediando il visitatore e costringendolo a una polifagia di notizie, suggestioni, dati.

A sinistra, Giardini, Padiglione Svizzera, “Neighbours”. Curatori: Karin Sander, Philip Ursprung. Al centro, Giardini, Padiglione Germania, Open for Maintenance. Curatori: ARCH+ SUMMACUMFEMMER / BÜRO JULIANE GREB. A destra, Giardini, Padiglione Spagna, Foodscapes. Curatori: Eduardo Castillo-Vinuesa, Manuel Ocaña (foto di Pedro Pegenaute)

Il padiglione belga, infine, con il progetto In Vivo, propone forse l’intervento più convincente tra tutte le partecipazioni nazionali. L’urgenza alla base della proposta è quella di riflettere sulla limitatezza delle risorse e mettere in discussione il sistema di produzione, ancora troppo spesso incentrato su politiche estrattive. In Vivo propone un’alleanza con il mondo dei funghi, che possono rappresentare una sorprendente fonte di materiale, disponibile, sostenibile, rinnovabile. La possibilità di impiegare il micelio (l’elemento vegetativo dei funghi) come materiale da costruzione viene approfondita alle diverse scale del progetto e testata attraverso un’applicazione concreta: all’interno del padiglione una suggestiva stanza nella stanza, completamente smontabile e riciclabile, mette in opera il materiale sperimentale come elemento di finitura, realizzando un sistema di facciata applicato su un telaio modulare in legno.

Giardini, Padiglione Belgio, In Vivo. Curatori: Bento e Vinciane Despret

La Mostra prosegue all’Arsenale con Dangerous Liaisons (Relazioni Pericolose) e i Progetti Speciali della Curatrice. Sia nel Padiglione Centrale che all’Arsenale sono poi presenti le opere dei Guests from the Future (Ospiti dal Futuro): giovani “practitioner” africani e diasporici, così qualificati per espressa scelta della curatrice. Il percorso espositivo all’Arsenale è un susseguirsi di contributi che in alcuni casi interpretano in maniera commovente il tema della decolonizzazione. In Unknown, Unknown: a Space of Memory, uno spazio fatto di sole luci e suoni celebra una comunità di schiavi all’University of Virginia (UVA), Stati Uniti. La modalità espressiva è in netto contrasto con la tipica volontà di permanenza del monumento nella sua concezione occidentale: inconsistenti pannelli in tessuto fungono da supporto alle proiezioni e rimandano al lavoro domestico delle donne afrodiscendenti e agli spazi in cui esse vivevano all’UVA. Una voce narrante recita dati e informazioni rintracciate da un gruppo di ricercatori riguardo le 4.000 persone che hanno vissuto quell’esperienza di segregazione raziale. “Unknown” – sconosciuto – scandisce la lettura come un mantra rivolto a ciascuna di quelle persone, spesso dimenticate e senza nome, che l’installazione tenta di salvare dall’oblio. Nell’allestimento di White Arkitekter, One Hundred and Fifty Thousand Trees, il tema delle Relazioni Pericolose viene interpretato alludendo a una visione spesso riduttiva della natura e del paesaggio. L’installazione scompone e analizza un progetto in legno realizzato in Svezia, esplorandone la tecnologia, le catene di approvvigionamento del materiale e il loro impatto sulle foreste, per includere nella narrazione i luoghi dell’estrazione di legname e mostrare ciò che spesso rimane invisibile. Le immagini di un film presentano la realtà della foresta industriale e l’efficienza della produzione, accompagnate da voci e da frammenti di discorsi sull’ecologia, che veicolano le contraddizioni degli attuali approcci verso le emergenze legate al clima e alla biodiversità.

Mabel O. Wilson, J. Meejin Yoon e Eric Höweler in collaborazione con Josh Begley e Gene Han, Unknown, Unknown: A Space of Memory. Sezione Progetti Speciali: Mnemonic. Arsenale

A sinistra, White Arkitekter, One Hundred and Fifty Thousand Trees. Sezione: Dangerous Liaisons. Arsenale. A destra, Estudio A0, Surfacing - The Civilised Agroecological Forests of Amazonia. Sezione: Dangerous Liaisons. Arsenale

Sono numerosissimi i contributi che meriterebbero di essere ancora menzionati e che sicuramente sono in grado di offrire ai visitatori una varietà di spunti e un patrimonio di conoscenza e di ricerca da indagare e approfondire. Come sempre, la Biennale di Venezia è un evento caleidoscopico dove le voci, le idee, i punti di vista e le suggestioni sono così numerose che proporne un quadro esaustivo, un’immagine univoca, un giudizio sintetico, è impresa faticosa e scomoda. Certamente alcune reazioni immediate, dopo la vernice, sono sembrate concordi sull’opinione che questa sia una Biennale dove si vede “poca architettura”. La quantità di installazioni artistiche, manufatti artigianali, video, fotografie, esiti di esperienze di ricerca o resoconti di attività temporanee, workshop, eventi sul territorio, è nettamente preponderante rispetto alle opere costruite o da costruire ed esposte in quanto tali. Ma la carestia di risultati concreti e conclusi, a favore di un’abbondanza di riflessioni, è da intendersi come sintomatica di un senso di impotenza della disciplina di fronte alle questioni poste? I mezzi espressivi messi in campo per discutere di decolonizzazione e decarbonizzazione sono i soli strumenti padroneggiati da una generazione di giovani architetti che pare aver rinunciato a costruire? L’osservazione sulla “poca architettura”, condivisibile se si considera che i racconti realizzati attraverso disegni tecnici e maquette si contano in tutta la mostra sulle dita di due mani, insinua ancora una volta la pressante e onnipresente apprensione rispetto al ruolo dell’architetto al cospetto delle complesse sfide della contemporaneità. Le modalità espressive selezionate dai partecipanti sembrano però le più consone, o per lo meno le più calzanti, per intavolare un discorso costruttivo sulle tematiche proposte dalla curatrice; non si tratterà allora di un consapevole passo indietro, per rispondere alle sollecitazioni avanzate che solo tangenzialmente hanno a che fare con l’attività del costruire, piuttosto che di una resa, una rinuncia al fare architettura? È la stessa Lokko, del resto, attraverso l’uso della parola “practitioner”, a rifiutare le qualifiche di “architetti”, “urbanisti”, “designer”, e identificare altrimenti le competenze invitate alla mostra. Eppure il termine, traducibile come “professionista”, o ancora meglio come “colui che mette in pratica”, è quanto di più lontano si possa immaginare da un rifiuto dell’azione. Come afferma la curatrice: «le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedono una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”». I partecipanti, dal canto loro, sembrano abbracciare questa comprensione più ampia, rinunciando a mostrare i risultati più oggettivi e tangibili della propria attività per partecipare alla riflessione collegiale cui sono stati chiamati; per trattare le questioni che interrogano tutti noi, in prima istanza come individui, e solo poi come architetti. Pazienza, dunque, se indugeremo un po’ di più davanti ai pannelli delle didascalie piuttosto che ai plastici di stupefacenti edifici. La Biennale di Architettura stavolta è alle prese con sollecitazioni esterne: tratta di spreco e privazione, di egemonie e minoranze, di costrizione e autodeterminazione, di equità e divario, di equilibrio e instabilità; tratta di esperienze e tentativi, perché in un Laboratorio per il Futuro sarebbe strano trovare risposte già pronte. Se il risultato è una mostra che, a prima vista, sembra una Biennale di Arte, dovremmo essere disposti a farne tesoro.

Arsenale, Padiglione Cile, Moving Ecologies. Curatori: Gonzalo Carrasco, Beals Lyon Arquitectos

Questo articolo è pubblicato in l’industria delle costruzioni 491 -Infrastrutture per la mobilità- maggio/giugno 2023

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